Le riflessioni fiscali (e non) di un D.G. 3' puntata
Roma
28-09-2018
Deontologia: vacuo esercizio filosofico ovvero rispetto della professione?
I significati che ruotano attorno ai lemmi ontologia/deontologia sono connaturati alla natura dell’uomo, e infatti sono stati parte onnipresente del dibattito filosofico nei secoli. Né vi è rimasta estranea la Bibbia, visto che tale dibattito ha sempre avuto al centro gli dei e poi il Dio cristiano Jahve. Né sono mancati accenni a comportamenti moralmente leciti/illeciti negli affari, in opere di stampo laico quale il fondamentale trattato di Fra’ Luca Pacioli De computis et scripturis, che è parte della sua monumentale Summa, e che ciascun ragioniere o contabile ben conosce.
Soltanto in epoca moderna però il termine deontologia è stato, diciamo così, codificato. Due sono i nomi che ci sentiamo di evocare a questo proposito, entrambi filosofi vissuti a cavallo tra ‘700 e ‘800, l’inglese Jeremy Bentham e il tedesco Immanuel Kant. Il primo perché a lui si fa risalire il termine stesso (Deontology or the Science of Morality è il titolo del suo saggio) che egli ha però connotato con significati utilitaristici tutt’affatto opposti a quello che poi prevalse e che noi oggi pratichiamo. Questo, in effetti, è ascrivibile a Kant che, dal proprio inflessibile rigore morale, ne ha tratto un termine ed una dottrina altrettanto rigorosi (in Kritik der praktischen Vernungt). Da quel primo Ottocento, deontologia è sinonimo di rigore morale, concetto in sé dibattuto da millenni, come s’è detto.
Il XX secolo, e particolarmente il secondo Novecento, è il secolo degli Ordini professionali, organismi che, eredi delle Corporazioni medievali abolite dalla Rivoluzione Francese, ne hanno preso il posto, rivendicando esclusiva autorità in talune branche del sapere. Per far ciò, oltre al preliminare esame di ammissione, si è imposta l’accettazione di apparentemente rigide norme comportamentali, che fanno riferimento al concetto di deontologia che prima abbiamo sviluppato. E’ da allora che tale vocabolo è inscindibilmente legato in maniera simbiotica con l’aggettivo “professionale”, così che deontologia professionale ci sembra appunto un’espressione unica. I codici deontologici sono nati in quegli anni, recepiti poi dalle leggi che si sono succedute (per le libere associazioni è la Legge 4 del 14 gennaio 2013), che si configurano come delle pre-leggi di ambito ristretto la cui amministrazione è demandata agli organismi collettivi medesimi (ordini e associazioni) che decidono sull’applicazione di un sistema sanzionatorio, e finanche sulla appartenenza o no agli organismi medesimi in relazione a taluni comportamenti del singolo professionista.
Questa visione delle cose mondane, quanto ai vincoli ordinistici, sta oggi declinando (io dico per fortuna), tanto che si vocifera oggi con insistenza dell’intervenenda abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, forse il più contestato fra tutti in forza del solo seguente ragionamento positivo: per scrivere non è forse sufficiente saper scrivere (giudicherà chi legge)? E rispettare le leggi, quella sulla stampa del ‘48 in primis, ed altre che impongono il rispetto del prossimo? Se le vìoli, sarai giudicato dalla Magistratura, mi pare che basti.
Nella mia utopistica visione, i codici deontologici hanno comunque una loro ragion d’essere. Tutta e solo però regolante i rapporti tra singolo professionista e Ordine o Associazione di appartenenza, che ben possono decidere chi iscrivere e chi no, a salvaguardia della loro credibilità collettiva, in forza di princìpi da loro approvati, col potere anche di espulsione. Senza però che ciò osti al libero esercizio della specifica professione, sul quale, eventualmente, lascerei l’esclusiva alla Magistratura. Per le libere Associazioni è già così, da sempre; per gli Ordini auspico che lo sia in un futuro di acquisita libertà di operare, fatta eccezione per i casi previsti quali necessarie tutele costituzionali.
Dott. Roberto Vaggi
Direttore Generale I.N.T.